Flessibilità e crescita professionale: unione impossibile?

La necessità di avere un orario lavorativo flessibile potrebbe incidere negativamente sulla carriera, ma è compito delle aziende evitarlo

14 giu 2024
3 minuti di lettura

Un importante fattore sta contribuendo alla fedeltà dei dipendenti sul posto di lavoro: la flessibilità.

È sempre meno trascurabile, infatti, una crescente domanda di flessibilità che ha dato luogo a un dibattito su come le aziende debbano adeguarsi a questa esigenza. Alcune stanno abbracciando questo cambiamento, mentre altre stanno incoraggiando i dipendenti a superare la formula flessibile per ricevere vantaggi di carriera.

Secondo Randi Weitzman, direttore esecutivo tech di Robert Half, società americana internazionale di consulenza sulle risorse umane, le due cose non devono essere in antitesi, e anzi le aziende non dovrebbero costringere a scegliere tra due opzioni.

Un modo in cui le aziende possono farlo è offrire un’opzione di lavoro ibrido, poiché risulta importante per le aziende comprendere quanto i dipendenti possano essere altrettanto efficaci lavorando da casa come lo sono in presenza. L’elemento della flessibilità non si traduce in un approccio fatto con lo stampino, ma può variare a seconda dell’azienda.
Un metodo suggerito è sfruttare “finestre di opportunità”, ossia orari di lavoro dei dipendenti che meglio si adattano ai loro programmi. Adattando ed evolvendo l’idea di flessibilità per integrarla nei propri modelli di business, le aziende possono creare ambienti più produttivi e allo stesso tempo far sentire apprezzati i propri dipendenti.

Per quanto riguarda la crescita professionale, invece, per Weitzman ci sono questioni urgenti riguardanti la consapevolezza. O meglio la mancanza di essa. I datori di lavoro spesso non sono consapevoli degli obiettivi professionali dei propri dipendenti, impedendo loro di creare percorsi di carriera adatti, per cui si ritiene che sia dovere di un manager investire tempo nel successo di un dipendente attraverso revisioni strutturate delle prestazioni e rendendolo consapevole delle opportunità disponibili. A questo si associa anche l’esigenza di avere un compenso adeguato. Spesso le aziende non sono dirette responsabili dei salari, ma possono intervenire per applicare politiche aziendali eque che impediscano disparità e diano priorità alla soddisfazione del dipendente.

La questione si fa impellente soprattutto guardando alle donne in carriera. Infatti, oltre al discorso sul gender pay gap, è emerso da un recente sondaggio, condotto dalla società di consulenza sulle risorse umane Robert Half, che il 45% delle dipendenti sono soddisfatte del livello di flessibilità offerto dal loro attuale lavoro e non sono disposte a perderlo in favore di un percorso di crescita professionale.

Per la categoria sembra che le due non possano coesistere, dunque. Prima della pandemia, la flessibilità raramente era considerata così vitale, ma gli ultimi anni hanno dimostrato alle persone che è possibile ottenerla mantenendo una buona carriera, organizzando il proprio lavoro sulle task più che sulla rigidità d’orario.

Se si guarda alla donne sul luogo di lavoro, risulta evidente la specifica necessità di adattare le esigenze lavorative ai propri impegni familiari, costruendo un equilibrio vita-lavoro che mette in primo piano la possibilità di essere flessibili. Tuttavia, i dati storici che analizzano le dinamiche di genere sul posto di lavoro suggeriscono che in questo modo si rischino retribuzioni più basse e che le carriere delle migliori dipendenti possano rimanere in stallo per diverso tempo.

In conclusione, per dare davvero potere ai dipendenti, assicurare la fedeltà all’azienda incentivando la produzione, secondo Weitzman le aziende devono offrire opportunità sia di flessibilità che di crescita professionale e adoperare le risorse aziendali per renderlo possibile.

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